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Turnover in azienda: opportunità o criticità?

Nel post-pandemia le aziende si sono trovate ad affrontare un turnover superiore alla media degli ultimi anni, con punte di ricambio spesso tanto elevate da creare difficoltà significative all’organizzazione del lavoro e perdita rilevate di competenze.

Sicuramente il turnover in azienda è fisiologico, la rotazione dei dipendenti all’interno di un’organizzazione è in parte un elemento positivo e stimolante. Infatti si considera fisiologico un ricambio di personale di circa il 5% annuo, è considerato un campanello d’allarme per l’azienda un turnover che raggiunge o supera il 10% anno, mentre è considerato certamente patologico quando raggiunge il 18% su base annua.

Per l’azienda un turnover patologico rappresenta un rischio di instabilità dei processi e un elemento di diminuzione della produttività, ha inoltre un costo diretto ed indiretto elevato, può essere inoltre campanello d’allarme riguardo ad una gestione non ottimale del personale e dell’organizzazione. Inoltre il turnover esasperato e patologico rappresenta una pubblicità molto negativa per l’azienda, che può avere ripercussioni sulla sua immagine e in particolare sulla sua capacità di attrarre nuovi lavoratori, in particolare tra quelli qualificati.

Il rischio di perdere personale, in particolare quello più capace e qualificato, è per questi motivi una delle maggiori preoccupazioni degli imprenditori e dei manager, vale quindi la pena domandarsi: cosa spinge un lavoratore a dare le dimissioni?

Cambiare lavoro è spesso vissuto dai lavoratori come una boccata d’ossigeno, questo perché secondo le indagini la motivazione principale che ha spinto ben 1,6 milioni di italiani a cambiare lavoro nel 2022 è lo stress.
Le altre ragioni principali delle dimissioni sono da ricondurre alle i aspettative di carriera e alla ricerca di un migliore equilibrio tra vita lavorativa e privata.

Approfondendo l’indagine, alla base del malessere genericamente percepito come “stress” possono essere riconosciuti alcuni problemi ricorrenti: carichi di lavoro eccessivi, ambiente troppo competitivo, orari di lavoro considerati non congrui ed eccessivi, assenza di riconoscimenti e valorizzazioni da parte dell’azienda, scarse o non chiare prospettive di carriera, stipendi considerati generalmente troppo bassi e in particolare non adeguati in relazione alle responsabilità, scarse opportunità di sviluppo delle competenze per carenze formative.

Un ulteriore elemento qualitativo che emerge dal dialogo con i lavoratori riguarda il desiderio di quest’ultimi di far parte di progetti significativi, di un percorso di crescita aziendale e professionale che sia coinvolgente e stimolante e che offra concrete opportunità di sviluppo, non di sentirsi dei meri “numeri”.
Altra considerazione interessante riguarda il fatto che la flessibilità nell’orario di lavoro, lo smart-working, l’opportunità di crescita professionale, cultura aziendale, migliori condizioni di salute psichica e fisica sono elementi considerati dai lavoratori, in particolare quelli più giovani e quelli con stipendi non “di base”, più importanti dei “soli” benefit economici, come a dire che ad oggi i soldi non sono sufficienti per compensare condizioni di lavoro considerate globalmente non positive o addirittura non accettabili.

La domanda che quindi ci si trova inevitabilmente ad affrontare è: cosa si può fare per mantenere il turnover in azienda entro limiti fisiologici, e per trattenere i lavori più qualificati, competenti, capaci o di prospettiva (i cosiddetti “talenti”)?

La risposta non è semplice e non esiste una “formula magica” valida per tutte le organizzazioni e i contesti, ma si possono identificare delle buone prassi che generalmente contribuiscono nel perseguire questi obiettivi:

Un approccio sistemico e una corretta architettura dei processi di gestione delle Risorse Umane consentono di sviluppare la corretta e specifica alchimia di politiche che nel tempo possono portare risultati efficaci in tutti i contesi organizzativi.

A cura di Francesco Menegalli