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Il Benessere Organizzativo: una questione di significati

Il 15 luglio ho avuto il piacere di essere uno dei relatori del convegno “Evoluzioni del Benessere” Evidence Based Management in collaborazione con il centro di ricerca APRESO e una serie di partner, tra cui Target Fattore Umano.

E’ stato interessante confrontarsi con accademici, professionisti ed imprenditori sul vasto tema del Benessere Organizzativo e sulle sue molteplici sfaccettature, nonché sulle diverse strategie che possono contribuire a promuoverlo e svilupparlo nelle organizzazioni e nei luoghi di lavoro.

I recenti mutamenti del mondo del lavoro, come la difficoltà di molte imprese nel reperire e trattenere personale qualificato o il “quite quitting” (che potremmo italianizzare in “fare il minimo sindacale”) hanno fatto si che un tema che fino a non molti anni fa era ritenuto prerogativa di specialisti o grandi aziende ora sia percepito da tutti, a tutti i livelli, come un tema centrale nella gestione dell’impresa e dell’organizzazione.

In questo contesto si sono moltiplicate “ricette”, strumenti, figure professionali. Si è ad esempio sviluppato un filone che promuove la “felicità” sul lavoro, secondo una linea di pensiero di per sé abbastanza semplice e lineare: se siamo felici sul luogo di lavoro, lavoriamo meglio.

Mi sono chiesto spesso quanto la felicità sia motore del lavoro, e in che modo possa esserlo.
Una mattina mentre andavo a lavorare (si noti che alle 7 di mattina non mi sentivo felice, come non mi ero sentito motivato ad andare a lavorare dalla felicità al risveglio) ho visto per strada degli operai che asfaltavano un tratto di strada. Non ho potuto fare a meno di pensare che loro dovevano sentirsi meno felici di me mentre stendevano bitume su una strada di prima mattina, con il caldo già ben percepibile nonostante l’ora. Quella scena all’alba mi ha fatto venire in mente una poesia di Cesare Pavese:

“I lavori cominciano all’alba
Ma noi cominciamo un po’ prima dell’alba a incontrare noi stessi nella gente che va per la strada…
La città ci permette di alzare la testa a pensarci, e sa bene che poi la chiniamo”

Dalla raccolta “Lavorare stanca”.

Non possiamo negare che il lavoro può essere si fonte di felicità, ma è anche causa di fatica, stress, preoccupazioni, ansie. “Lavorare stanca” per l’appunto.

Ma non solo “stanca”: nel libro “Dying for a Paycheck: How Modern Management Harms Employee Health and Company Performance—and What We Can Do About It” Jeffrey Pfeffer ha evidenziato come molte organizzazioni moderne stanno adottando pratiche gestionali che danneggiano sia i dipendenti che le aziende stesse, causando stress, ansia, diminuzione della soddisfazione, fino a vere e proprie malattie mentali e fisiche. Sulla base di studi epidemiologici addirittura Pfeffer sostiene che queste cattive condizioni di lavoro causano danni alla salute dei lavoratori paragonabili o addirittura superiori a quelli causati dal fumo di sigaretta.

La specifica situazione italiana poi appare particolarmente fosca e per niente “felice”: basti pensare che secondo l’ultimo report “State of the Global Workplace” di Gallup ci collochiamo al penultimo posto in termini di engagement dei lavoratori (solo 1 lavoratore su 20 si sente coinvolto pienamente coinvolto e impegnato nel proprio lavoro), mentre sono ben il 46% i lavoratori dipendenti italiani che percepiscono il proprio ambiente di lavoro come stressante.

In questo contesto apparentemente pessimo, pensando alle “Evoluzioni del Benessere” per il mio intervento al convegno mi sono ritrovato a tornare alle origini: perché lavoriamo? Ci alziamo la mattina “solo” per pagare il mutuo della casa, dell’auto, la scuola ai nostri figli?
Forse non è questo il l’unico e profondo significato del lavoro, ma forse dovremmo smettere anche di pensare alla felicità come l’unico strumento per rendere gratificante il lavoro. D’altronde la felicità è un’emozione, e come tutte le emozioni è uno stato transitorio.
Forse dovremmo tornare a pensare al significato del lavoro, non solo perché il lavoro di ognuno ha un valore intrinseco, economico ed etico, ma anche perché è il significato che ha per noi il nostro lavoro ciò che ci può consentire di vivere con benessere duraturo il nostro impegno e anche la nostra “stanchezza”.

In un sondaggio condotto su 12.000 lavoratori dipendenti, il 50% ha affermato di riuscire a percepire il significato del proprio lavoro, ma coloro che invece lo percepiscono hanno riferito un livello di soddisfazione lavorativa 1,7 volte maggiore, erano 1,4 volte più coinvolti nella propria mansione ed avevano più di 3 volte più probabilità restare nell’azienda in cui lavoravano.

La ricerca del significato del proprio lavoro e delle motivazioni che ne derivano ha sicuramente una componente di percorso individuale, ma anche le organizzazioni devono assumersi la responsabilità di promuovere la significatività del lavoro nel proprio contesto. Ciò è possibile supportando individualmente i dipendenti con adeguati percorsi di coaching, ma questo tipo di investimento dovrebbe essere primariamente di tipo organizzativo. Dobbiamo porci la domanda: cosa può fare la nostra azienda per dare un significato al lavoro di ognuno?

Una buona partenza può consistere nell’ascoltare i dipendenti, le loro legittime aspirazioni, cosa a loro “piace” di più, cosa sembra loro più “utile” nel contesto delle proprie mansioni, cosa è percepito come più in linea rispetto alle proprie attitudini e i propri valori. Aiuta poi certamente a dare un senso a ciò che si fa la possibilità crescere nel proprio ruolo e imparare cose nuove: in tal senso l’impostazione di obiettivi condivisi, la strutturazione di percorsi di carriera e adeguati programmi formativi di supporto sono strumenti di management delle risorse umane imprescindibili.
Tutto ciò ovviamente deve essere incastonato in un sistema di comunicazione interna efficiente ed efficace e da uno “storytelling” accattivante, oltre che da attività di team-building, perché è più facile e più soddisfacente avere uno scopo se questo è condiviso (il che comporta anche la necessità di lavorare allo sviluppo e alla promozione di una mission e una vision condivise)

La ricerca di significato è un percorso difficile, che non rende una persona immediatamente felice (ma che anzi potrebbe innescare un percorso di consapevolezza temporaneamente destabilizzante) e che è difficile da guidare e supportare. Ma questa forse più di altre è una sfida oggi decisiva per chi si occupa di persone nelle organizzazioni, che si può vincere solo grazie a strategie coerenti e applicate con costanza. In tal senso chi si occupa di Risorse Umane sempre di più deve lavorare per creare ponti tra le persone e il significato del lavoro. Questo aiuterà le persone a crescere non solo dal punto di vista delle competenze, ma anche delle motivazioni profonde, dell’engagement, dell’attaccamento all’azienda, contro-bilanciando o comunque dando un senso nuovo e non negativo anche a ciò che inevitabilmente nel lavoro è “fatica”, stanchezza, stress.

A cura di Francesco Menegalli